mercoledì 18 luglio 2012

Convivendo


Quello che mi ha sempre fatto paura del matrimonio e della convivenza in generale è l'abitudine. È quella, a parere mio, che rende tutto il resto difficile, che mostra il lato peggiore di noi stessi e mattone dopo mattone crea muri ancora più alti di quanto non lo siano già le difficoltà di ogni giorno.
Parlo di difficoltà oggettive come far quadrare i conti e soggettive che possono andare da un'iniziale innocua incomprensione ad un qualcosa di ancora più stupido come una qualsiasi recriminazione fatta in un momento di nervosismo.
Quando si è fidanzati, quando ci si vede per uscire, per vedere un film o anche per fare una vacanza insieme, la prospettiva è -giustamente- differente: anche in questi casi il momento no può esserci, ma normalmente si tende a passare su certe cose per non rovinare il momento, per far si che quelle che ci sembrano poche ore insieme, non possano essere ricordate per un litigio, magari stupido.

Fondamentalmente poi, sono stata sempre una persona chiusa, una a cui piaceva star da sola, che non ha amato le amicizie pressanti, gelose. Di conseguenza lungi da me un rapporto con un compagno possessivo. Questo forse dipende dal fatto che specialmente in un uomo ho cercato la sicurezza. Non il padre sia beninteso (sebbene mi si accusi di avere uno spiccato complesso edipico, o di Elettra nel mio caso), ma qualcuno che sia fondamentalmente leader e che non viva le sue insicurezze (quindi le gelosie) a ridosso di una donna.
L'ing. è il giusto equilibrio: fondamentalmente è un "capo", ma lo è con discrezione; sa quando è il momento di ritirarsi e soprattutto se non è sicuro di qualcosa rimane sulle sue. Si mostra appena appena geloso più per stimolare la mia vanità che per un suo reale bisogno.

Ma l'ing. non è perfetto, come non lo è nessuno, come non lo sono io. Sono una perfettina, una rompiscatole per dirla più chiaramente, ma sono anche fortemente insicura. In questo nuovo ruolo di donna di casa (il mio inutile curriculum è nei database di qualsivoglia agenzia, ma dubito riesca ad arrivare anche solo alla scrivania di qualche addetto al personale) cerco di dare il meglio, ma è chiaro che non sempre mi riesce. E capita che lui mi prenda in giro per queste cose. Lo fa bonariamente, ma non si è arrabbiato nemmeno quando, da fanatico della camicia quale è, le prime volte si ritrovava con pieghe fatte da questa mano inesperta con il ferro da stiro.
Il mio voler essere perfetta, il pensare che in fondo ho solo una casa da gestire e non riuscire a farlo nemmeno a modo, mi manda(va) in tilt. Capita ancora oggi che prenda male i suoi "siparietti" per poi vergognarmi come una ladra.
La mia vergogna è data dal volere per lui il meglio e non poterglielo dare e viene alimentata dal fatto che sia il primo poi a cercarmi, coccolarmi e rassicurarmi.
Per non parlare di quando lo vedo pensieroso o addirittura triste e non mi riesce di sollevarlo dai suoi pensieri.

Eppure.
Eppure mi capita, maggiormente in questi giorni, di fermarmi a guardare qualche sua foto quando lui non c'è o di guardarlo quando non se ne accorge o quando inizia a sonnecchiare sul divano e davvero tutto si fa più chiaro. Mi batte il cuore e mi accorgo di aspettare il suo ritorno con ansia, mi rendo conto che allora è vero, che siamo insieme. Che quello che aspettavo da anni adesso è qui, lo sto vivendo. Stiamo vivendo insieme. Che son passati i tempi del 56k e delle sue traversate con il treno, della nostra prima vacanza di quattro giorni a Civitella Alfedena, del "ci vediamo tra due settimane" e di tutto il resto.
Sono passati solo poco più di due mesi ed il mio pessimismo mi ricorda di non darmi troppo alla pazza gioia, di non esternare con troppa convinzione qualcosa che potrebbe cambiare con il passare dei giorni. Ma non capisco perché non debba essere felice di questa chiarezza: non ci sono mai stati troppi "per sempre" nel nostro rapporto e abbiamo iniziato senza troppe aspettative cercando di prendere il buono che veniva. E mi piace continuare così, con quella conoscenza dell'altro che mi da quella buona tranquillità, cercando al contempo di non crogiolarmi nella stessa.

Perché poi lì potrebbe farci lo sgambetto lei, l'abitudine. Quella triste.






mercoledì 4 luglio 2012

Taglie comode



Partiamo da un presupposto che non è di nessuna pertinenza con il post che segue: l'ing. è pressoché perfetto. Difatti ieri pomeriggio, mentre rientravo nello spogliatoio della palestra per la doccia, mi chiama dicendo: "alle sei sono sotto casa, andiamo all'ovviesse?".
Era da un po' che diceva che dovevo comprare qualcosa, rinnovare un po' il guardaroba senza troppe pretese ed ha preso la palla al balzo (fortuna avevo già preparato la cena).
Devo dire che, nonostante la bilancia stia dando i numeri al rialzo (ma non c'è ragione, quindi non mi preoccupo più di tanto), ero dell'umore giusto per prenotare una sauna da camerino.
Ho preso due magliette coloratissime, un jeans bootcut e una maglia simil chiffon blu (poliestere of course!) per uscire la sera. Avrei voluto, proprio per la sera, qualcosa di ugualmente leggero ma più colorato...ma niet.
Comunque sia, dopo aver fatto più volte il giro degli stand ho visto degli abitini coloratissimi: presi in mano mi sono accorta di esser finita nel reparto taglie comode. Si, alla fine sembro comunque sempre attratta da taglie che furono mie. In particolare, in questo reparto, c'era una signora abbastanza grossa che cercava, con un paio di amiche normopeso, qualcosa per lei.
Mi sono sentita decisamente umiliata quando, la signora in questione, con gentilezza si è affidata all'occhio di un'assistente alla vendita chiedendole quale taglia dovesse prendere. "No signora, la 49 a lei non va, deve prendere la 51", che detto per inciso è un modo più carino di dire "ti tocca prendere la taglia 60". Non c'è nulla di male in quello che le è stato detto, sia ben chiaro, eppure la scena mi ha colpita. Forse anche perché, dieci minuti dopo, sono andata casualmente a provare la maglia blu nel camerino adiacente quello dove si trovavano la signora e le sue amiche. Da lì ho potuto sentire l'insoddisfazione di questa donna:" questo non mi va, questo mi sta stretto, qui si vede la ciccia" e via dicendo. Il tono non era stufo quanto serenamente rassegnato. Le amiche facevano di tutto per consigliarla e sono sicura che i complimenti che le facevano fossero sinceri.

In questi casi accade che il mondo intero ti vede grassa, ma quando ti conosce, quando acquisisce una certa pratica con te, sa distinguere se quel giorno ti sei vestita da tendone del circo o se con quella gonna stai decisamente meglio. Ti tratta come una persona normopeso. Ti dice se quel taglio di capelli ti dona o quel trucco ti esalta lo sguardo. Come lo direbbe ad una persona normopeso.
Invece tu no. Tu (e parlo per me stessa al passato), nonostante ti sia rassegnata ad essere di quella stazza, non vedi miglioramenti. Non ti vedi meglio con qualcosa. L'accettazione è fasulla. È, come dicevo prima, rassegnazione. In certi casi decisamente triste.
Se curarsi è qualcosa che fai per non sentirti sciatta, cercare un vestito è una forzatura.


Diversamente mi sembra di capire è per quelle ragazze plus size che hanno anche un blog con gli outfit (si dirà così?). Decisamente le invidiavo e le invidio ancora oggi. Avrei vissuto meglio i miei 130kg senza le paranoie che invece mi hanno accompagnata per 26 anni.





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